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ATTACCO AGLI ITALIANI
Nella notte ritrovati razzi Rpg in mano ai guerriglier
Iraq, attaccati i Lagunari: nessun ferito Razzi anticarro e colpi di mitragliatrice contro una pattuglia di stanza a Nassiriya. Gli italiani hanno risposto al fuoco
L'ultimo
attacco contro
i Lagunari italiani era avvenuto il 10 giugno scorso. Una bomba era
esplosa al passaggio di una pattuglia nei pressi della base
Libeccio a
Nassiriya senza fare danni.
In un'operazione condotta ieri nella
notte i
Lagunari avevano ritrovato sei razzi
RPG-18 al
termine di un pattugliamento condotto lungo la strada che da
Nassiriya conduce al villaggio di Al
Batah, circa venti chilometri a ovest del capoluogo. Si
tratta di razzi a carica cava di ultima generazione e quindi
potenzialmente molto più pericolosi. È stata un'unitá della task
force «Serenissima» ad
individuare due pick-up, camion scoperti, guidati da sconosciuti che
si sono velocemente allontanatiabbandonando
in terra i razzi.
GLI
SCONTRI
Si indaga per capire la dinamica dell'attacco Nassiriya, scoppio al passaggio dei lagunari
Un ordigno esplode davanti a un mezzo militare italiano, nei
pressi di Nassiriya: nessun danno né feriti
NASSIRIYA -
Attacco contro i militari italiani in Iraq. Questa mattina un
ordigno è esploso senza far danni al passaggio di una pattuglia di
lagunari
dell' Italian joint task force
nei pressi della base
L'ordigno è esploso davanti al primo dei tre veicoli che componevano la pattuglia italiana, senza colpire il veicolo. L'aliquota investigativa del contingente italiano sta ora cercando di capire la natura dell'esplosione: in particolare, se si sia trattato di un colpo di mortaio o di una bomba confezionata artigianalmente. Da chiarire anche se è stato un attacco premeditato: «Finora, quando le nostre pattuglie sono state oggetto di attentati - spiega una fonte del contingente italiano - all'esplosione di ordigni o ai colpi di mortaio sono sempre seguite raffiche di arma da fuoco. Questa volta non è successo».
L'agguato poco prima della cerimonia per il 2 giugno poi annullata
Bagdad, trappola per i diplomatici italiani
Esplosione vicino alla residenza dell’ambasciatore De Martino.
Colpita un’auto dei carabinieri
ROMA -
Una bomba è stata lanciata ieri contro
due auto dell’Ambasciata italiana a
Bagdad vicino alla residenza del nostro ambasciatore Gianludovico De
Martino. L’attentato è avvenuto mentre il rappresentante
diplomatico italiano si
preparava ad accogliere alcuni ospiti per celebrare il 2 giugno,
l’anniversario della Repubblica. A causa dell’esplosione
dell’ordigno si è deciso di annullare la cerimonia.
E’ successo nella zona settentrionale di Bagdad, nel quartiere Waziria, sul fiume Tigri. Un gruppo di carabinieri paracadutisti del reggimento Tuscania addetti alla sicurezza dell’Ambasciata ha deciso di compiere un’ispezione nella zona circostante la residenza dell’ambasciatore prima dell’inizio del ricevimento. Sono saliti su due fuoristrada Mitsubishi Pajero blindati e hanno iniziato una lenta ricognizione delle strade. A un certo punto l’agguato. Un ordigno definito «rudimentale» è stato lanciato contro uno dei fuoristrada, il secondo in ordine di marcia. Le schegge hanno lacerato tutt’e due le gomme posteriori dell’automezzo. Invece la carrozzeria, rinforzata dalla blindatura, ha retto all’urto dell’esplosione. I carabinieri non hanno subito alcun danno. Non è chiaro se il responsabile dell’attentato abbia agito da un’auto in corsa o se invece fosse a piedi. Per il momento non è possibile nemmeno sapere se i carabinieri sono riusciti a capire se si trattava di un attentatore isolato o se invece sono entrati in azione più terroristi. Attorno all’episodio è calato un fitto riserbo. Difficile ricostruire nei dettagli cos’è avvenuto, ma certamente si tratta di un gesto che crea grande allarme. «Il clima è quello che è - commenta Fabrizio Nicoletti, primo consigliere dell’Ambasciata a Bagdad -. Ma io non drammatizzerei. Si è trattato di un incidente casuale. Le nostre auto passavano mentre è esplosa la bomba. Non era diretta contro i mezzi dell’Ambasciata». Comprensibile il tentativo di minimizzare e di far apparire l’esplosione come frutto del caso, ma purtroppo tutti gli elementi disponibili portano a una sola allarmante conclusione: si volevano colpire gli italiani. L’attentato era mirato. E alimenta sempre più i sospetti che i terroristi possano contare su informatori in grado di comunicare gli spostamenti dei nostri diplomatici e militari. Il riserbo con cui si cerca di coprire questo episodio impedisce perfino ai responsabili della sicurezza in Italia di capire bene cosa è avvenuto. I dettagli dell’agguato sono stati comunicati solo a un ristretto numero di persone. La rappresentanza diplomatica italiana a Bagdad era già stata oggetto di un attentato alla fine dello scorso novembre, un paio di settimane dopo la strage di Nassiriya. In quell’occasione fu sparato con un lanciarazzi un ordigno Rpg contro la sede dell’Ambasciata. Il risultato fu un buco largo 30 centimetri nel muro dell’edificio senza danni alle persone. Dopo quell’episodio l’ambasciatore evitò di rimanere anche la notte a dormire nella sede diplomatica. Ora però è stata evidentemente individuata anche la residenza da lui scelta. L’attacco è avvenuto proprio a poca distanza dalla casa dell’ambasciatore. E forse non è casuale che gli autori del gesto abbiano scelto di entrare in azione proprio mentre ci si preparava a un ricevimento. Le gomme del Pajero colpite non hanno ceduto del tutto. Sono gomme speciali, semipiene, per cui hanno consentito di proseguire la marcia. I due mezzi dei carabinieri hanno accelerato per sfuggire a un eventuale fuoco incrociato. «In questi casi - spiega un alto ufficiale dell’Arma - non ci si ferma mai. La regola è allontanarsi più in fretta possibile». Nella stessa zona di Bagdad si sono verificate anche altre due esplosioni che hanno provocato la morte di 4 o forse 5 iracheni. Allarme infine a Nassiriya, dove una pattuglia di lagunari ha sorpreso tre miliziani iracheni a bordo di un’auto. I nostri militari hanno cercato di fermarli, ma loro sono fuggiti sparando alcuni colpi andati a vuoto. Si sono dileguati prima che i lagunari potessero rispondere al fuoco. Marco Nese
«In
salvo sui cingolati sotto il fuoco dei miliziani» «Sui cingolati sotto un diluvio di
proiettili»
NASSIRIYA Dopo una notte di bombardamenti, sei cingolati italiani sono entrati nel recinto del palazzo del governatorato di Nassiriya. Si sono aperti la strada combattendo. I civili vengono evacuati, i soldati restano a difendere la palazzina. Sentimenti impolverati, fuori moda, adatti a momenti intensi, di vita e di morte. Ci si saluta rapidi, con gli occhi in alto a intuire l' arrivo di nuove granate da mortaio. Le mani stringono forte. Qualcuno, tra chi parte e chi resta, si abbraccia e piange. Non c' è vergogna. Non può esserci dopo una notte di bombardamento continuo, passata a misurare lo spessore dei nervi. I civili hanno ricevuto l' ordine di evacuazione dal palazzo della Cpa alle 16 di ieri, l' una e mezzo in Italia. Trenta minuti di preavviso. Poi nel recinto della palazzina sono entrati sei cingolati trasporta-truppe italiani, carichi di armi all' inverosimile. Una visione. Per arrivare sin qui si sono aperti la strada sparando per un' ora nelle strade della città. Partono gli «assessori», i «contabili», i responsabili del protettorato americano su Nassiriya. E con loro quattro giornalisti: Maria Cuffaro e Peppino Belviso della Rai, Meo Ponte di Repubblica e l' inviato del Corriere. Nella trappola del palazzo del governatorato di Nassiriya rimangono invece solo il numero due della missione, il britannico Rory Steward, il dottore Roberto Pedrale e i soldati. E' uno strazio lasciarli. I mezzi cingolati hanno i portelloni aperti. Chi resta nel fortino sotto attacco ha la certezza di una nuova notte di bombardamenti. Il coraggio si respira. Rory, il giovane imperturbabile diplomatico di Sua Maestà, resta perché, dice, «un capitano non abbandona la barca che affonda». Il chirurgo torinese perché è l' unico dottore nella palazzina assediata e, anche se è nella lista dei partenti, ha deciso da solo. «Non lascio questi ragazzi, come fanno senza un dottore?». I soldati restano per difendere tutto ciò che rappresenta quella palazzina: il protettorato americano sull' Iraq, la scommessa della ricostruzione del dopo- Saddam. I militari restano perché glielo hanno ordinato. E perché sono gli unici che possono farlo. Hanno il coraggio e l' addestramento per farlo. Sono i marò del Reggimento San Marco. I pochi mercenari americani (a 1.000 dollari al giorno) e il plotone di ex militari filippini (stessa somma, ma per un mese) non resisterebbero un' ora senza di loro. Aws Al Kafaji, lo sceicco che rappresenta l' integralista Muqtada Al Sadr a Nassiriya, guida la rivolta che per lui è una Jihad, una Guerra Santa, per liberare la città dagli stranieri. Lo hanno visto in tuta mimetica e keffiah rossa e bianca in testa. La sede del Consiglio provinciale iracheno, appena ristrutturata con i denari Cpa, è stata prima occupata, poi saccheggiata e quindi abbandonata. Il tribunale è stato assediato per l' intera mattinata di ieri. Non è chiaro se sia stato occupato oppure no. Metà delle auto e delle armi della polizia irachena sono state consegnate o rubate. E comunque adesso sembrano nelle mani delle Brigate ribelli del Mahdi. I miliziani sono sparsi per la città. Soprattutto lungo le rive dell' Eufrate e le principali strade d' accesso, da dove devono comunque passare le forze italiane. Resiste invece la principale stazione di polizia. Ma ciò non ha impedito ai rivoltosi di setacciare le poche sedi di organizzazioni umanitarie in città. Cercavano stranieri da rapire, hanno raccontato al telefono alcuni guardiani iracheni ancora terrorizzati. Non hanno trovato prede, perché nessuno straniero è rimasto a Nassiriya, e gli uomini di Al Sadr si sono consolati svuotando gli uffici di computer e impianti d' aria condizionata. I miliziani sembrano padroni non solo di Nassiriya, ma anche di tutti i principali centri della provincia. A Suq Ash Shuyuk, a sud, sono bastati 30 miliziani per convincere la polizia locale a non presentarsi al lavoro o cambiare direttamente barricata e unirsi alla rivolta. Lo stesso a nord, ad Ash Shatrah, ad Al Rifaji e, praticamente, in tutte le altre città della provincia. Lo stesso ritardo di cinque ore con cui venerdì notte sono arrivati i soccorsi al governatorato sotto assedio si giustifica con i continui agguati che le colonne dei mezzi italiani hanno subito durante l' intero percorso. «Abbiamo deciso l' operazione durante la notte - spiega il generale Gian Marco Chiarini, comandante del contingente italiano -. E certe cose non si fanno guardando il cronometro, ma quando le condizioni sono adeguate per portarle a termine con successo. Venerdì notte abbiamo condotto un' azione vasta e complessa, compiuta combattendo in tutta la città. Un' operazione comunque efficace perché siamo riusciti a interrompere l' assedio alla Cpa». Chiarini elogia i suoi uomini perché «in tante ore di combattimento hanno dimostrato grandissima professionalità, disciplina e grande senso del dovere». Secondo il generale, «al momento non ci sono edifici pubblici occupati e i ribelli sono qualche centinaio, ma in continuo movimento. Ogni tanto attaccano». Attaccano. Come quando i sei cingolati mandati alla Cpa per evacuare i civili hanno lasciato, alle 16.30 di ieri, la palazzina assediata. E' stata una corsa, febbrile e paurosa, lungo vie che fino a giovedì si potevano percorrere in taxi. A Nassiriya, la feritoia di un mezzo corazzato sotto tiro sembra lo schermo di un videogioco di guerra. Ogni muro può nascondere un lanciarazzi. Ogni finestra un cecchino. Ogni palma una mitragliatrice. E nella maggior parte dei casi ci si azzecca. La corsa dovrebbe durare 20 minuti. Ma finisce solo dopo un' ora e un quarto. Due, tre civili per ogni mezzo, un pilota, un radiofonista e quattro militari alle armi. «Non vi spaventate se sentirete dei colpi. Siamo noi che spariamo in aria per avvisare i malintenzionati che stiamo arrivando». E' una bugia pietosa davanti agli occhi sbarrati degli ospiti. L' effetto rassicurante dura poco. Perché anche un orecchio poco allenato capisce quando un proiettile parte e quando uno arriva contro la corazza del mezzo su cui viaggi. Marò e bersaglieri sparano a qualunque cosa gli tiri contro. Usano calibri di ogni tipo, granate e bombe a mano. Ma anche dall' altra parte mettono in mostra un notevole campionario di armi. Anche questa è una cosa inedita. Come il fatto che gli uomini di Al Sadr non abbiano più paura ad attaccare di giorno. La Guerra Santa lanciata venerdì in moschea è presa tremendamente sul serio. La promessa fatta in un' intervista al Corriere due settimane fa dallo sceicco Al Kafaji è rispettata. «Quando l' Esercito del Mahdi si muoverà ve ne accorgerete». «Tirano, tirano» grida un marò che dalla cintola in su emerge dal tetto del corazzato. E la risposta della sua Browning, una mitragliatrice pesante, è assordante e devastante. Il metallo dei cingoli stride sull' asfalto. Le auto si buttano di lato appena la colonna compare nello specchietto retrovisore. Il rombo delle raffiche è così forte che arriva a coprire quello del ferro. Sul fondo del corazzato cadono dozzine di bossoli roventi, ma a centinaia rimbalzano sui marciapiedi. Si spara tra le case, con proiettili capaci di sfondare un muro di mattoni, tra la gente che è uscita a curiosare. L' ordine è di non fermarsi per nessun motivo. L' evacuazione avverrà in due parti: la prima dalla Cpa all' ex base Libeccio dei carabinieri, il secondo salto da lì a White Horse. Un cingolo abbatte un palo della luce. La raffica di un italiano affetta un triciclo carico di meloni. Dall' angolo lì dietro qualcuno spara con i mitra. La corsa ha dell' incredibile. A distanza di pochi metri lo scenario cambia. E così la minaccia. Da una finestra spara un Rpg, da un' altra si affaccia un bambino. Il dito è sul grilletto ed è difficilissimo non sparare su tutto ciò che si muove quando sai che ti vogliono far male. A sera, dall' ospedale di Nassiriya, parleranno di due iracheni morti e cinque feriti. Combattenti o civili, non si può verificare. La prima cassetta di pallottole per le mitragliatrici è già finita. «Prestooo» gridano i mitraglieri. I corazzati sono pieni di armi. La presenza dei civili rallenta i movimenti, ma per aiutare almeno un poco questi diventano serventi passando i nastri di proiettili a chi deve usarli. La puzza della polvere da sparo riempie le narici. All' altezza di Animal House, la base dei carabinieri distrutta dall' attentato del 12 novembre, gli attacchi si fanno ancora più violenti. Un mezzo è centrato da un razzo Rpg, sbanda, le Browning sbriciolano la casupola da dove sembra sia partito il colpo e imboccano il ponte sull' Eufrate. Davanti alla serpentina fatta di bidoni di terra è il panico. Due mezzi della gendarmeria portoghese accorsi a sostegno hanno imboccato la gimcana, bloccandola. I gendarmi capiscono tardi di dover indietreggiare e i corazzati italiani sono costretti a fermarsi. Saranno trenta secondi. Forse cinque minuti. Il tempo ha cambiato velocità. I militari gridano, imprecano, urlano al pilota di restare in movimento per non offrire un bersaglio troppo facile ai cecchini. E intanto sparano. «Il lanciagranate, subito, adesso, subito». Dall' ultimo carro, il più vicino alle case da cui i miliziani stanno attaccando, si tirano anche delle bombe a mano. Botti, esplosioni, è un caos di decibel e paura. Il fuoco di sbarramento però ha effetto: le Brigate del Mahdi riescono a colpire soltanto un caricatore di mitragliatrice Minimi. La pallottola buca la latta e si schianta contro un bossolo dando fuoco alla carica. Al di là c' era il fianco del soldato. I gendarmi liberano la gimcana e finalmente la colonna entra nella Base Libeccio, riconquistata dagli italiani nella notte di venerdì per poter almeno controllare il ponte. «Siamo arrivati» dice un bersagliere. Ma non si fa in tempo a rifiatare. Mentre dai corazzati si scaricano i bazooka da lasciare a chi difende la base, piovono due razzi Rpg e una granata da mortaio. Si riempiono i serbatoi delle armi. Di lì a poco un carabiniere a difesa della base Libeccio verrà ferito, anche se solo di striscio. La colonna riparte sparando in tutte le direzioni. Si ripete la roulette del miliziano e del bambino. Chi sarà quello che spara? Un cecchino si è appostato dentro una casa che ha i vetri a specchio. Una raffica li manda tutti in frantumi. Non c' è tempo per pensare. Eppure è passata quasi un' ora e 15 quando i mezzi entrano a White Horse, la base italiana a 13 chilometri dalla Cpa di Nassiriya. Sono le 17.45. Tempo tre ore e il palazzo del governo che i civili hanno abbandonato viene di nuovo bombardato. Razzi Rpg. E' l' inizio di una nuova lunga notte per chi è rimasto là. In trappola. Andrea Nicastro sequenza di attacchi ATTENTATO Uccisi 19 italiani Il 12 novembre un attacco kamikaze devasta la base Maestrale, sede del contingente italiano a Nassiriya. Nell' attacco muoiono dodici carabinieri, cinque militari della Brigata Sassari e due civili italiani (il volontario di una Ong e un regista). Tra gli iracheni le vittime sono undici: quattro di loro sono bambini. Oltre ottanta i feriti SCONTRI Uccisi 15 miliziani L' episodio più grave per gli italiani in Iraq è la battaglia del 6 aprile nelle strade di Nassiriya. I miliziani sciiti attaccano e cercano di conquistare tre ponti sull' Eufrate difesi dai bersaglieri. Gli scontri a fuoco vanno avanti per ore. Alla fine, muoiono quindici miliziani. Rimangono feriti anche 11 bersaglieri, che poi vengono rimpatriati L' ASSALTO Feriti due militari Pochi giorni dopo la battaglia sui ponti, il 24 aprile, in un assalto contro la sede della Cpa (l' Autorità provvisoria della coalizione) a Nassiriya, due soldati italiani vengono feriti. I guerriglieri attaccano con granate nel buio e poi scappano. I due lagunari del reggimento San Marco sono colpiti dalle schegge di un' esplosione. Anche loro vengono riportati in Italia Nicastro
Andrea Pagina
001/003
L'ATTACCO
I miliziani sparano anche dall'ospedale
Solo 4 colpi autorizzati e la «Libeccio» è persa
L'inviato del Corriere della Sera racconta l'abbandono della
caserma italiana e la giornata di scontri a Nassiriya
di
ANDREA NICASTRO
NASSIRIYA - Scontri in tutta la città. Un avamposto strategico perso. E almeno 16 italiani feriti. Uno è gravissimo, ma il bilancio rischia di cambiare in peggio ogni ora. All’una di notte, le 23 in Italia, quello che ha tutta l’aria di essere un tentativo di riscossa: sessanta, settanta esplosioni. Probabilmente cannonate da 105 millimetri delle blindo Centauro. Gli italiani a Nassiriya combattono. Chiamarla o meno guerra è un problema politico, non lessicale. Le pattuglie italiane escono dalle basi nel deserto per fare da
A sera altre cinque esplosioni all’interno del complesso, ma non è stato possibile sapere se ci fossero stati feriti. Nel fortino sotto il fuoco è arrivata anche la governatrice Barbara Contini. Ha voluto esserci. La sua presenza è un simbolo. Ma di certo non potrà lavorare alla ricostruzione della provincia o alla rieducazione democratica delle classi dirigenti irachene. Le casse con i nomi dei notabili che si erano candidati alla futuribile Commissione elettorale nazionale sono state portate al sicuro a White Horse. E’ tutto un progetto che va a pezzi. Le scrivanie degli uffici sono accatastati per farne barricate, i computer sono per terra negli angoli delle stanze trasformate in rifugi anti bomba. Il generatore elettrico deve essere alimentato di gasolio a mano. Ieri mattina non c’era più acqua e per colazione i soldati che hanno
Con la foschia dell’alba quando però ormai i visori notturni erano inutili si è sparsa la voce che i miliziani stessero tentando di entrare nella Cpa. Da là dentro molto difficilmente la Contini potrà collaborare alle trattative con i notabili locali. Si è infilata in un fortino bersagliato a piacimento dove nessun iracheno sano di mente avrebbe piacere a sedere al tavolo con lei. Nell’accompagnarla due carabinieri sono rimasti lievemente feriti. Il primo atto della coraggiosa governatrice in sede è stato l’ordine di evacuazione immediato per il dottor Roberto Pedrale che il giorno prima aveva rinunciato ad andarsene per assistere eventuali feriti. Il chirurgo ha buttato la sua roba in due bauli ed è salito su un mezzo cingolato. I 13 chilometri che separano la Cpa alla Base di White Horse erano stati percorsi domenica in un’ora e un quarto di sparatoria continua. Ieri per lo stesso percorso la colonna che portava in salvo Pedrale ha impiegato 3 ore. In un giorno i miliziani erano già meglio piazzati, più numerosi, più aggressivi. I marò di guardia alla Cpa, infatti, non sono più i soli a dover fare gli eroi. Ieri è toccato anche ai lagunari del Reggimento Serenissima (appena arrivati in Iraq) e ai Carabinieri. L’obbiettivo era rendere sicuro l’avamposto costituito 24 ore prima nella ex base Libeccio abbandonata dai Carabinieri in marzo. La palazzina domina il primo ponte di Nassiriya, quello che collega in modo più diretto le basi nel deserto con il fortino Cpa assediato. E’ una postazione strategica fondamentale. Lì i convogli che attraversano la città trovavano rifugio e potevano fare scorta di munizioni prima dell’ultimo tratto di strada. E di combattimenti. Per rendere la Libeccio sicura ieri mattina 3 blindo Centaurohanno colpito con i loro cannoni le posizioni dei miliziani dall’altra parte dell’Eufrate. Roma aveva autorizzato quattro colpi. Due a sinistra del ponte sui ruderi di Animal House, la base dei Carabinieri distrutta il 12 novembre, e due a destra del ponte su una villa in rovina. Quattro colpi. Così vogliono le regole d’ingaggio italiane. Le cannonate non vanno d’accordo con quella sorta di peace keeping per il quale saremmo venuti in Iraq e quindi il loro uso va di volta in volta autorizzato da Roma. Ma due colpi a sinistra e due colpi a destra non sono bastati. I miliziani si sono acquattati per qualche ora e poi sono tornati a sparare sulla Libeccio. Due carabinieri sono stati feriti lievemente nel primo pomeriggio. Altri tre italiani, lagunari, questa volta, sono stati investiti dalle schegge di una granata da mortaio all’imbrunire. Uno di loro è molto grave. Ha perso così tanto sangue da andare in blocco cardiaco. Ora è in rianimazione. E’ a quel punto che è stato deciso l’abbandono della Libeccio. Ad intervenire sono stati chiamati i Carabinieri del Tuscania e i gendarmi portoghesi. Hanno messo insieme una lunga colonna di soccorso composta da 16 tra blindati e corrazzati a cui si sono aggiunti tre Centauro. Alla Libeccio hanno raccolto i lagunari e si sono ritirati verso il deserto. I miliziani li aspettavano. La battaglia è stata visibile persino da White Horse, la più piccola delle due caserme italiane nel deserto. Traccianti, bagliori di esplosioni. L’eco dei colpi e di uno scontro intenso. Tre carabinieri del Tuscania sono rimasti feriti. Altri 4 soldati feriti in un tentativo di pattugliamento poco lontano. Il conto delle vittime italiane non sarà immediato, ma è relativamente facile. Quello delle vittime irachene quasi impossibile visto che nè i comandi militari italiani, nè ciò che rimane della polizia irachena favorevole alla presenza della Coalizione sono in grado di andare nell’ospedale occupato dai miliziani. La città vive giornate di terrore. Scuole, uffici, università, edifici pubblici sono chiusi. Ieri c’è stata un’esplosione al bazar. Si parla di venti feriti. Gli italiani sono stati accusati, ma il comando militare nega ogni responsabilità e suggerisce che la responsabilità possa essere di un mortaio dei miliziani andato fuori obbiettivo. Una notizia paradossalmente positiva viene dall’eco di una sparatoria avvenuta dietro l’ospedale dove non c’erano soldati italiani. «Non è chiaro neppure a noi che cosa sia successo - ammette il generale Gian Marco Chiarini, comandante del contingente -. Però potrebbe essere il segno che la popolazione di Nassiriya comincia a stancarsi della presenza di questi miliziani». Di notte, dopo il passaggio di diversi aerei e la voce che su Nassiriya stessero calando i marines, una serie di boati. Sessanta, settanta, probabilmente cannonate delle Centauro. Forse una svolta nell’atteggiamento italiano in Iraq.
Nassiriya, bomba contro i Lagunari
Nessun ferito nell' attacco. L'
esplosione al passaggio di tre veicoli di pattuglia Un ordigno
telecomandato sulla strada vicino alla base Libeccio, dove un mese fa
cadde il caporale Matteo Vanzan Una bomba piazzata lungo la strada. Una pattuglia italiana in arrivo. Qualcuno che osserva la scena, forse con un telefonino in mano, pronto a far esplodere l' ordigno con un dispositivo a distanza al passaggio dei nostri soldati. Gli va male, perché la bomba esplode davanti al primo dei tre veicoli del Reggimento Serenissima. Nessun ferito. Nessun danno. Soltanto un po' di apprensione, e il segno che a Nassiriya la svolta irachena annunciata dall' Onu non è ancora arrivata. Ostaggi liberi. Soldati sempre nel mirino. L' attacco ai Lagunari è avvenuto ieri mattina durante una normale operazione di pattugliamento. Il convoglio era vicino alla base Libeccio, un nome entrato nella nostra topografia del dolore. Lì un colpo di mortaio ha ucciso il caporale Matteo Vanzan. È passato quasi un mese e gli italiani a Nassiriya continuano a essere sotto tiro. Sei giorni fa c' era stato il doppio attacco a una pattuglia della Cooperazione civile-militare. Ieri è stata una bomba, una di quegli ordigni che gli americani chiamano «Ied« (improvised explosive device). Ordigni «artigianali» e micidiali a cui si deve gran parte dello stillicidio quotidiano dei soldati americani uccisi nel Triangolo Sunnita come a Bagdad. Nascosti sul ciglio della strada, nei mucchi di spazzatura o nelle carcasse di animali morti. Spesso sono usati per innescare una trappola. Un sacco sospetto, la colonna che si ferma aspettando gli artificieri, e subito l' agguato dei guerriglieri a colpi di lanciagranate e kalashnikov. Una tattica che fortunatamente non è stata utilizzata ieri contro la pattuglia dell' «Italian joint task force». In passato, quando le nostre pattuglie sono state oggetto di attentati, all' esplosione di ordigni sono sempre seguite raffiche di arma da fuoco. Questa volta no. L' attacco premeditato resta un' ipotesi. Potrebbe essere stato soltanto un avvertimento. Come a Najaf i guerriglieri di Muqtada Al Sadr non hanno deposto le armi, a Nassiriya le sue bande restano attive. La svolta dell' Onu, il nuovo governo, la fine dell' occupazione prevista per il 30 giugno non cambiano lo scenario sul terreno. Anzi. All' avvicinarsi di queste scadenze gli analisti prevedono un aumento degli attacchi contro obiettivi della Coalizione e della polizia irachena. Ieri mattina insieme ai lagunari c' erano proprio dei poliziotti iracheni. Stavano svolgendo un' attività di pattugliamento congiunta quando è arrivata l' esplosione. Circa un mese fa, il 14 maggio, scattò l' attacco dei miliziani di Al Sadr alla sede della Cpa. Due giorni di battaglia, con l' edificio dell' Autorità provvisoria della coalizione sotto assedio e scontri in tutta la città. Il bilancio della battaglia fu pesante per il nostro contingente. Un morto e sedici feriti. Arrivato a Nassiriya da pochi giorni per il suo secondo mandato, il caporale dei lagunari Matteo Vanzan fu ucciso da un proiettile di mortaio. Nel suo nome, in questi giorni, avviene un gemellaggio tra Nassiriya e l' Italia. La città di Padova ha dedicato una piazza al caporale caduto. E Nassiriya ha dedicato qualcosa a Padova. L' ha spiegato il colonnello Pellegatta, comandante del Reparto San Marco in Iraq, che ieri pomeriggio ha telefonato al sindaco, Giustina Mistrello Destro, annunciandole che oggi sarà inaugurata a Nassiriya una palazzina dedicata a Padova. «Stamane, quando avete dedicato una piazza di Padova al caporal maggiore Matteo Vanzan, eravamo con voi, sia come uomini che come militari. Un gesto che ci ha profondamente commossi. Per questo - ha affermato il colonnello -, abbiamo deciso che la Palazzina "Security Sector Reform" porterà il nome della vostra città». Nella «Palazzina Padova» saranno destinati i servizi per la ricostruzione dello Stato iracheno: la difesa civile, la polizia, gli organismi giudiziari.
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IN
PRIMA LINEA BLOCCATI I MEZZI COINVOLTI IN AZIONI DELLA GUERRIGLIA
Quei Lince fermi, sequestrati dai pm
Undici
blindati finiti sotto sigillo. I soldati: non possiamo neppure ripararli
«Non è la camorra» Il generale Bertolini, numero tre nella rete di
comando del contingente internazionale Nato-Isaf: «Costretti a operare
come se stessimo dando la caccia alla camorra nel Casertano»
VALLE DI MUSAHI
(Afghanistan) - Come fronteggiare uno scenario di guerra, se il mandato
prevede l' applicazione del codice militare di pace? Il problema è antico
per i soldati italiani che ormai da un paio di decenni vengono impegnati
nelle missioni all' estero. E oggi si ripropone più che mai con l'
aggravarsi della tensione in vista delle elezioni presidenziali afghane
del 20 agosto. Dopo una lunga conversazione, così lo riassume Marco
Bertolini, generale della Folgore e numero tre nella rete di comando del
contingente internazionale Nato-Isaf a Kabul: «Il nostro dilemma è che
in Italia la politica e l' opinione pubblica non vogliono sentire parlare
di guerra. È un problema culturale. Preferiscono ricondurre la nostra
missione nell' ambito molto più tranquillizzante della lotta alla
criminalità. Pur con la recente abolizione dei cosiddetti caveat (alcune
delle limitazioni poste in origine alle capacità operative, ndr), noi
siamo costretti ad operare come se stessimo dando la caccia alla camorra
nel Casertano. È un atteggiamento ipocrita, perché lo sanno tutti che
gli insorti agiscono in modo tattico. Qui non si tratta di trovare i
colpevoli e consegnarli alla giustizia. Assieme alle nuove forze di
sicurezza afghane dobbiamo invece battere sul campo una vera e propria
insurrezione armata». L' argomento emerge dopo una giornata trascorsa con
il centinaio di paracadutisti di turno all' avamposto di Musahi.
Paragonato all' ultima visita due anni fa, il fortino è stato
notevolmente blindato: un radar continuamente in funzione per individuare
qualsiasi movimento in quello che i soldati chiamano «il campo di
battaglia» tutto attorno; due mortai da 120 millimetri sempre pronti al
tiro; cannoni dei blindati e mitragliatrici pesanti in posizione con il
colpo in canna; telecamere che riprendono i «punti morti» (come quelli
dietro il muro di cinta di una scuola costruita dalla cooperazione
italiana); decine di pattuglie notturne che perlustrano le alture
circostanti. «Siamo come in una trappola. C' è il rischio che i talebani
ci sparino dall' alto. E noi dobbiamo pattugliare per evitare sorprese»,
spiega il colonnello 45enne Aldo Zizzo, che questa missione la segue con
viaggi quotidiani tra il quartier generale a Camp Invicta e Musahi. Lui e
i suoi uomini sono attenti a dosare le parole, sono soldati prima di
tutto. Però il malcontento è evidente. «Questa vallata è la porta di
accesso dalle zone controllate dalla guerriglia a sud alla regione di
Kabul. In più casi avremmo potuto catturare i talebani che mettono le
bombe sulle nostre strade e ci sparano di notte. Ma non lo possiamo fare.
Dobbiamo attendere le forze di sicurezza afghane. Che spesso arrivano
troppo tardi, o addirittura non vengono, spiegando che rischiano di cadere
in un' imboscata. Così i talebani scappano e domani potranno tornare ad
aggredirci». Qui ci sono veterani della Somalia, del Libano, non mancano
militari che hanno trascorso lunghi mesi a Nassiriya. Tra i fatti più
criticati c' è la questione del sequestro dei mezzi italiani che
rimangono coinvolti negli attentati. «Ben 11 blindati Lince, che per noi
sono la vera protezione contro le bombe, sono stati messi sotto sigillo in
tempi diversi perché dovevano essere a disposizione della procura di
Roma. Come se fossero elementi di una normalissima inchiesta secondo le
consuete procedure giudiziarie», dicono i responsabili del parco
macchine. Vista la penuria di mezzi, i meccanici vorrebbero sfruttare i
pezzi di ricambio dei Lince più danneggiati. Ma non lo possono fare, se
non a prezzo di attese che durano diversi mesi. Lorenzo Cremonesi
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FINE DELLA GUERRA
Via i soldati Usa, in Iraq inizia la «nuova
alba»
Non
possiamo vivere alla mercé di un regime che minaccia la pace con le armi
di distruzioni di massa George Bush,
19
marzo 2003 Completato il ritiro delle truppe combattenti, restano solo 50
mila addestratori Smobilitazione Brigata «Stryker» I
in
novanta giorni sono partiti un milione e mezzo tra autoveicoli,
frigoriferi, radar, armamenti, computer e altro materiale
Le ultime truppe combattenti che hanno lasciato l' Iraq sono i
440 uomini della Brigata «Stryker» stipati
in 68 veicoli blindati
BAGDAD - Gli ultimi chilometri in Iraq li hanno percorsi nel traffico civile, pazientemente scortati dalla polizia locale, gli sguardi annoiati degli automobilisti infastiditi dagli ingorghi, a oltre 50 gradi di calura. Un finale certo poco eroico per il fior fiore delle truppe d' assalto, eppure molto in tono con lo spirito da «cessate il fuoco» voluto dall' amministrazione di Barack Obama. L' ultima unità a raggiungere il Kuwait è stata ieri mattina la quarta Brigata Stryker: 440 uomini inquadrati in 68 veicoli blindati che da un anno stazionavano a Camp Liberty, un settore super-protetto di Camp Victory, la gigantesca base Usa poco distante dall' aeroporto internazionale di Bagdad. Loro compito, sino all' altro ieri, era quello di essere pronti a intervenire con la massima potenza di fuoco in azioni offensive dove fosse stato necessario, in tutto il territorio del Paese. Già tre mesi fa era stato loro annunciato che sarebbero stati la retroguardia della gigantesca operazione di evacuazione. Ormai da lungo tempo le truppe americane evitavano comunque il contatto diretto con la popolazione. Oltre 50.000 soldati fuori dal Paese entro il 31 agosto. Altrettanti restano invece almeno sino al 31 dicembre 2011, ma con compiti del tutto differenti (al momento 6.000 in più servono per la logistica). Non sarà comunque una missione facile. L' Iraq è un Paese impaurito, si sente minacciato dai Paesi vicini, vulnerabile. Sino a ora si doveva combattere, adesso si rimane per addestrare le nuove forze di sicurezza irachene. Da missione «Iraqi Freedom» a «New Dawn» (nuova alba): da soldati a istruttori. Finiti da un pezzo i giorni della battaglia di Falluja nel 2004. Terminata la caccia senza quartiere alle cellule di Al Qaeda. Anche le campagne sanguinose contro la milizia estremista sciita di Moqtada al Sadr sono ormai solo storia. In novanta giorni sono partiti oltre un milione e mezzo di «pezzi»: mezzi, frigoriferi, radar, armamenti, computer e tanto altro. Di questi il 30 per cento andrà in Afghanistan, il resto verrà distribuito tra le basi nel Golfo e quelle in patria. L' America ne regala un altro milione all' Iraq. Il convoglio della 42esima si era messo in moto mercoledì alle due di mattina. Un viaggio tutto diverso da quello dell' invasione nel marzo 2003. Allora si stava in pieno deserto, attenti ai campi minati, rallentati dalle tempeste di sabbia. Dal Kuwait ci vollero 20 giorni per arrivare alla capitale. Questa volta si sono immessi a 60 all' ora di media sulla grande autostrada diretta verso il Golfo. Prima sosta nei dintorni di Nassiriya, 300 chilometri più a sud. Attesa sino alle dieci di sera. Infine partenza per l' ultimo balzo di 200 chilometri. Alle quattro di ieri mattina hanno attraversato il confine con il Kuwait. «Missione compiuta. Non torneremo più in Iraq. Ora ci penseranno gli iracheni a difendere il loro Paese», dice qualche soldato intontito dal sonno. Solo una ventina tra quelli presenti fecero parte della prima ondata di invasione. Tanti però hanno servito in Iraq a più riprese negli ultimi anni. Ne conoscono il prezzo sulla loro pelle: 4.419 militari americani morti, più o meno 30.000 i feriti. Qualcuno della brigata è già stato richiamato per l' Afghanistan. Ma prima tutti in licenza a casa. L. Cr. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Le fasi del ritiro Surge Al momento del «surge», la grande offensiva contro gli insorti, nel 2008, gli americani avevano in Iraq 168 mila uomini Disimpegno Con l' elezione di Obama ha avuto inizio il disimpegno. Negli ultimi diciotto mesi, oltre novantamila soldati hanno lasciato l' Iraq: ieri gli ultimi 400 militari hanno attraversato il confine con il Kuwait La missione Nato In Iraq, oltre ai 50 mila istruttori e i 6 mila addetti alla logistica americani, restano i soldati di 14 nazioni (13 membri Nato oltre all' Ucraina). Il compito di questi militari è di appoggio e istruzione alle forze irachene: 164 uomini, di cui 78 italiani **** Sette anni in cinque immagini L' attacco su Bagdad: «Così libereremo gli iracheni» La notte del primo attacco missilistico su Bagdad, 20 marzo 2003: «Shock and awe», colpisci e terrorizza. George Bush annunciò la guerra in tv: «Per disarmare l' Iraq, liberare il suo popolo e difendere il mondo da un grave pericolo». La caduta di Saddam, l' illusione della rapida vittoria Il 9 aprile cadde Bagdad. Le statue di Saddam a pezzi, tre anni prima della sua impiccagione. Le armi di distruzione di massa mai trovate. Le bandierine Usa che la Cia voleva dare agli iracheni rimasero nelle casse, come i piani di rapido ritiro. Nella prigione di Abu Ghraib le foto della vergogna La soldatessa Lynddie England con un prigioniero al guinzaglio. Abu Ghraib 2004, a un anno dalle elezioni. Il primo voto e le torture subìte dai detenuti iracheni: marchio indelebile sulla missione Iraqi Freedom. La catena dei caduti nella «trappola di sabbia» Il casco sul fucile, gli scarponi a terra: il rituale del saluto per i caduti in Iraq («sandbox» in gergo militare) prima del rimpatrio. L' ultima si chiamava Faith Hinkley, 23 anni, ex Girl Scout del Colorado uccisa a sud di Bagdad il 7 agosto. Il sacrificio di 100 mila civili: kamikaze ancora un pericolo Circa 100 mila civili iracheni uccisi in 7 anni. Dal 2009 la violenza è calata drasticamente. L' ultima strage pochi giorni fa, copione classico: un kamikaze si è fatto esplodere nella folla in coda per arruolarsi. (a cura di Michele Farina) Cremonesi
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