Sembra tutto destinato a rimanere sepolto tra
i ricordi e tra i rimpianti.Irreversibile, come era
stato imprevedibile. E poi un giorno, all'improvviso,
ritornano gli stessi nomi, le stesse parole, nella stessa,
già udita, sequenza: Nassiriya, attentato, vittime,
italiani. Proprio come il 12 novembre 2003 quando morirono
in 19 nell'esplosione di un camion carico di tritolo.
L'attacco di ieri è un altro colpo per tutti. Per alcuni,
i famigliari, è l'inizio della fine. Fine della speranza
e dell'attesa. Per altri, è la replica di un giorno già
vissuto. Non sono i loro telefoni a squillare, questa
volta, per riversare a domicilio voci contrite, silenzi
imbarazzati e lacrime. Difficilmente notizie così
ripercorrono due volte lo stesso cammino. Ma il dolore sì,
quello ritorna: «Ed è perfino più forte - assicura
Tiziana Montalto, moglie del maresciallo Alfio Ragazzi e,
dal quel 12 novembre, una delle vedove di Nassiriya - . E'
più forte, perché non è anestetizzato dai sedativi con
cui mi hanno intorpidito la mente quando è accaduto a me.
Oggi ero lucida ed è stato peggio. Oggi per me era ancora
il 12 novembre. Oggi, come allora, ci sono altre vedove,
altri orfani, altri genitori impazziti dalla disperazione.
Speravamo che non succedesse ad altri, ma sapevamo che non
era impossibile, che il terrorismo colpisce ancora e
dovunque».
Il papà del lagunare Matteo Vanzan,
ucciso a 23 anni da una scheggia di granata, il 17 maggio
2004, sempre a Nassiriya, era più fiducioso: «Credevo
che, dopo di me, non toccasse più a nessuno. Sento sulla
mia pelle che cosa stanno provando in questi momenti i
genitori di quei ragazzi: ora sono frastornati, anzi di più
- non riesce a valutare la profondità di quello
strapiombo Enzo Vanzan, infermiere di professione - . Non
si rendono ancora conto della perdita che li ha colpiti.
Auguro loro di restare uniti, quando cominceranno a
capire. La loro sofferenza durerà per sempre, ma tutto
quello che si può fare per loro è pregare che non si
smarriscano e che possano reagire. Come sto facendo io,
nel solo modo che conosco: andando a trovare i lagunari,
come ho fatto ieri. Andando alla commemorazione della
battaglia di Pastrengo, con i carabinieri, come farò
domani. Sono sempre assieme ai commilitoni di Matteo, i
suoi coetanei ormai sono cresciuti, molti li ho persi di
vista, ma ci sono i comandanti e i nuovi arrivati. Dico
sempre che ho perduto un figlio, ma ho trovato una grande
famiglia».
Chi ci è già passato, sa che invece la
tentazione di sbattere la porta in faccia al mondo è
forte, spesso irresistibile: «Volevo chiudermi nei
miei ricordi, tenere tutto per me - testimonia da Monreale
Marco Intravaia, fratello gemello dell'appuntato Domenico,
anche lui morto quel 12 novembre nell'esplosione del
camion bomba al campo Maestrale - . Poi, con alcuni amici,
ho raccolto in un cd le immagini di mio fratello a
Nassiriya. Ne ho fatte un po' di copie che ho distribuito
durante qualche cerimonia in suo onore. I ricordi sono
sacchi troppo pesanti da portare da soli. Io e lui eravamo
quasi uguali, fisicamente. Lui aveva il viso appena più
tondo. Ma ancora adesso qualcuno si sbaglia; e quando mi
chiamano Mimmo, anziché Marco, mi rendono felice. Perché
anche questa confusione serve a ricordarlo; e mantenere
viva la sua memoria è un modo di rendergli onore».
Onore è una parola che ricorre spesso,
alla voce «desideri», tra i famigliari delle vittime di
Nassiriya: «Quando ci sono i figli — aggiunge Tiziana
Ragazzi —, bisogna fare di tutto perché la vita torni
alla normalità. Ma non ci si può rassegnare. Voglio che
i miei bambini crescano senza odio e senza desiderio di
vendetta. Fieri del padre. Che cosa li può aiutare? La
medaglia d'oro che questo Stato ancora non riconosce ai
morti del 12 novembre. Lo so che questo non è il momento
di parlarne. Ma le autorità non trovano mai un momento
per spiegarmi che cosa impedisca loro di riconoscere che
quei caduti sono eroi. Dicono che le indagini
sull'accaduto sono ancora in corso. Che prima della loro
conclusione non si può determinare se ci siano stati atti
eroici e conflitto a fuoco, cioè i presupposti della
medaglia. Ma quali atti eroici e conflitti a fuoco sono
mai possibili contro 500 chili di tritolo?». Per Paola
Coen Gialli, vedova del maresciallo Enzo Fregosi, si
tratta di tramandare il ricordo del loro valore: «Questi
ragazzi sono andati a Nassiriya coscienti dei pericoli e
convinti di quello che facevano: portare stabilità,
sicurezza, pace in Iraq».
Per Lucrezia che oggi ha 7 anni e ha vissuto
quasi metà della sua vitasenza di lui, il papà non
è così lontano, nell'olimpo degli eroi, ma alla portata
dei discorsi che gli dedica ogni sera, prima di dormire:
«E' un rito a cui lei non rinuncia mai - spiega Sabrina
Brancato, vedova del maresciallo dei carabinieri di Asti,
Giovanni Cavallaro, morto nella strage di Nassiriya, a 47
anni - . Di lui parla sempre, sa tutto. Sa che era un
carabiniere, sa che era in missione di pace». Ieri
mattina Lucrezia ha percepito che qualcos'altro di brutto
doveva essere accaduto: «Le prime notizie le ho sentite
appena sveglia, alle 7 — racconta sua madre —. Tutti i
ricordi sono tornati a galla di colpo. Ho acceso il
televideo, è iniziato a squillare il telefono. Sono
sempre in contatto con altre vedove. Ci siamo messe a
piangere. Ma neppure io troverei parole di conforto per le
famiglie colpite ora. Non ce ne sono. Io stessa, ancora
adesso, non riesco a credere che possa essere capitato
proprio a me. Ho perso tutto, con mio marito. Anche se
l'Arma continua a essermi vicina e ad aiutarmi ogni volta
che lo chiedo». Non spera in una medaglia, si
accontenterebbe di essere considerata una vedova come le
altre, Adele Parrillo, la compagna del regista Stefano
Rolla che a Nassiriya, quel 12 novembre, stava girando un
documentario: «Quest'ultimo agguato agli italiani ha
rinnovato la mia rabbia e il mio dolore — dice da Roma,
dove vive con contratti a termine —. Ero irascibile,
sono andata al lavoro e ho litigato con una collega.
Temevo la retorica stantìa che sarebbe stata tirata fuori
anche per questi caduti. Sono stanca di essere presa in
giro con questa storia della missione di pace, che di pace
non è. E trovo ancora più offensivo sbandierarla in
occasioni come queste, di fronte a un bambino di due mesi
che crescerà senza il padre. I posti in prima fila, ai
funerali, sono sempre per i politici e i generali. Per i
famigliari, ricordo, non c'erano nemmeno le sedie. Per me,
nemmeno un posto, perché Stefano e io eravamo insieme da
12 anni, ma senza esserci sposati. Mi hanno cancellata.
Non auguro a nessun altro di dover sopportare oltre a
tanto dolore, anche questa umiliazione».
Elisabetta Rosaspina